“La terapia dell’oblio contro gli eccessi della memoria”
Carlo Magno chiese esplicitamente in dono all’allora califfo di Baghdad, Harun al-Rashid, un elefante. Tale richiesta era frutto di un desiderio politico: era considerato un animale che adora i Re, lo dimostra il fatto che piega le ginocchia, quasi a genuflettersi, al cospetto del padrone.
L’animale era già conosciuto perché portato nel nostro continente da Pirro (nel 280 a.C.) e da Annibale (nel 218 a.C.) e perché minuziosamente descritto da Aristotele (Storia degli animali) e da Plinio il Vecchio (Storia naturale) e quest’ultimo ne descrive le virtù che ne facevano la bestia più vicina alla sensibilità dell’uomo:
- comprendono il linguaggio
- obbediscono ai comandi
- ricordano gli esercizi che gli vengono insegnati
L’elefante, dopo un viaggio di cinque anni, arrivò ad Acquisgrana nell’802. Abul Abbas lo chiamò Carlo, nome scelto, come l’animale stesso, per ragioni simboliche: era il nome dello zio paterno di Maometto il quale ebbe un ruolo rilevante, verso la fine dell’VIII secolo, a seguito dell’assassinio di Ali ibn Abi Talib, cugino e genero di Maometto, nell’avviare la dinastia califfale degli abbasidi; ruolo simile a quello che ebbe per i franchi il padre di Carlo, Pipino, quando depose Childerico III, ultimo re della dinastia dei Merovingi.
Con la sua esistenza nella vita di Carlo Magno, l’elefante ebbe modo di “salvare” l’Imperatore dal desiderio di Adolf Hitler di trovare in lui un illustre progenitore, ma tra i nazisti iniziò a circolare l’idea che Carlo non fosse stato un “vero tedesco” e cha, anzi, fosse una figura “antigermanica” per il solo fatto di aver posseduto e desiderato quell’animale.
L’elefante mal si addiceva in generale all’uso pubblico dell’immagine di Carlo Magno così la sua figura venne lasciata infine ai margini della storia. D’altra parte, poteva il “padre dell’Europa” essere ricordato accanto a qualcosa che richiamava così tanto alla mente il mondo islamico?
Nessuno insomma volle o seppe ricordare che il desiderio di re Carlo di avere accanto a sé un elefante non corrispondeva a un orientalismo ante litteram ma al semplice desiderio di possedere un “animale da imperatore”.
Questo il capitolo che ho scelto per spiegare in sintesi la tesi del libro già, in verità, perfettamente riassunta nel suo titolo: troppa enfasi sulla memoria, troppo poca storia.
L’autore, Paolo Mieli, divide il suo libro in 3 sezioni:
- “curiose amnesie”: contraddizioni che caratterizzano il meccanismo per cui ricordiamo alcune cose e ne dimentichiamo altre;
- “memoria riluttante”: parti importanti della Storia celate da smemoratezze apparentemente casuali (l’esempio di Abul Abbas appena descritto fa parte di questa sezione);
- “dimenticanze sospette”: ricordi mancanti perché, in buona sostanza, volutamente esclusi dalla memoria.
Consiglio caldamente la lettura di questo libro: fluido nella sua schematicità, interessante da un punto di vista storico ma tutt’altro che noioso e scontato, soprattutto per chi come me, in Storia non è mai stato il primo della classe.
Personalmente ho deciso di leggerlo perché ritengo il tema trattato estremamente attuale: vediamo questi “processi della mente” nella vita personale e nella vita comune.
A tutti capita di “fare taglia e cuci” della vita di un conoscente per averne poi come risultato un’idea certamente chiara ma, a ben vedere, fuorviata.
Nella vita sociale accade, ad esempio, in politica: a causa della “memoria collettiva”, spesso distorta, non si riesce sostanzialmente a progredire in quanto alle fazioni politiche presenti in un certo momento storico si attribuiscono colpe e meriti delle loro “antenate” e “progenitrici”.
È corretto questo processo di, direi, “attribuzione indebita”? Io credo di no, non sono appassionata di Storia ma di Filosofia proprio per questo: la Storia è un racconto che certamente aiuta a capire ma non a definire e definire è la cosa più importante. Per definire qualcosa come giusto o sbagliato, come opportuno o non opportuno, come utile o non utile, è necessario guardare al passato o è sufficiente ragionare sul presente? È necessario, oggi, l’esempio storico della schiavitù per definirla sbagliata o siamo in grado di definirla tale unicamente basandoci sul nostro sentimento odierno? Inoltre, pur accogliendo la storia come Magistra vitae, siamo certi che davvero insegni? A chi risponde sì contesto che, eppure, esiste chi ancora reputa giusta una soluzione finale per questa o quella “razza”; ne consegue che la Signora Maestra Storia non è in grado realmente di insegnare perché più debole delle convinzioni vive ora e adesso nell’animo umano e che la coincidenza o meno di esse con quello che la Storia ci ha insegnato non è che una pura coincidenza.
In questa mia teoria sono disposta, tutt’al più, ad ammettere che la memoria e la storia utili ad un insegnamento di qualche peso sono quelle derivanti da un periodo compreso tra noi stessi e tre generazioni precedenti, ad ammettere quindi che la memoria dei nonni e bis nonni possa giocare un ruolo di rilievo nel presente, ma il dubbio mi assale constatando che esistono tutt’oggi negazionisti della Shoah.
Voi ritenete opportuno basarsi sulla Storia per definire il presente? Che sia dunque utile avere un memoria da elefante, come Abul Abbas, o che sia meglio farsi un bel bagno purificatore nel fiume Lete?
Valentina
Articolo molto interessante e pieno di spunti di riflessione! Penso proprio che acquisterò il libro, mi avete incuriosito 😉
Valeria DG
Ciao Valentina,
grazie per il tuo feedback positivo! Sono contenta che l’articolo ti sia piaciuto e che ti abbia incuriosito!
Continua a seguirci e…buona lettura! 😀