Il danno scolastico
Il figlio dell’idraulico fa l’idraulico, il figlio del notaio fa il notaio.
Questa la constatazione da cui ha avuto origine e si basa la critica mossa alla scuola pre-riforma Berlinguer: la scuola è classista, poco democratica mentre dovrebbe includere tutti e soprattutto dare a tutti pari opportunità azzerando la disparità data da eventuali condizioni sociali di partenza differenti. Vero, ma non troppo; innanzitutto non sempre il figlio dell’idraulico fa l’idraulico ma spesso si diploma e frequenta l’università, però è vero che quasi sempre il figlio del notaio fa il notaio, perché? Perché in caso di lacune, lo studente più abbiente può frequentare lezioni private pagate dai genitori; ma tolto dall’equazione questo “bonus” resta solo una variabile che può decretare il prosieguo degli studi: la variabile P = Preparazione scolastica. Se la preparazione scolastica fosse adeguata per tutti le disparità ci sarebbero solo in dipendenza da voglia di studiare, capacità personali ecc… tutto al di fuori dalla scuola e tutto sommato un one to one tra studente e scuola stessa.
Attenzione: adeguata PER tutti non A TUTTI: nel primo caso si avrebbe una scuola con certi standard prefissati, alti e raggiungibili con più o meno fatica a seconda di un mix tra capacità personali e impegno (un cocktail molto personale quando si è dietro i banchi di scuola); nel secondo caso si avrebbe una scuola con standard prefissati medio-bassi in modo tale da poter consentire alla quasi totalità degli studenti di passare tutti gli anni scolastici (con cocktail meno forti). Un po’ come dire: nella scuola adeguata per tutti, quasi tutti possono farcela; nella scuola adeguata a tutti quasi tutti ce la fanno.
Si potrebbe istintivamente pensare che la “scuola democratica” possa davvero aiutare i meno abbienti, ma è esattamente il contrario perché abbassando il livello accade che non si dia loro gli strumenti adeguati a scalare la vetta e colmare differenze culturali iniziali che, ricordiamo, pur abbassando il livello non spariscono; si crea dunque un divario ancora maggiore e “li si manda in guerra” con armi ancor meno potenti; non solo, si fornisce a chi già “parte bene” un vantaggio raddoppiato in quanto si abbassa la distanza da percorrere per raggiungere la vetta.
Sotto la spinta progressista degli anni ’60 nascono slogan come “la scuola dell’obbligo non può bocciare” e “diritto al successo formativo” la scuola diventa così un formidabile amplificatore di diseguaglianze questo anche a causa di una destra conservatrice non sufficientemente forte o interessata a combattere questa spinta verso il basso. Nel 1962 venne varata la nuova scuola media, scompaiono così l’Iliade, il latino, l’analisi logica e del periodo; a detta di chi l’’ha vissuta (Luca Ricolfi ad esempio, uno degli autori del libro) scompare anche un senso perenne di allerta e vergogna: ancor prima di entrare a scuola si temeva di aver dimenticato qualche libro, quaderno, nozione e in questi casi, la vergona di averlo fatto.
Nel 1967 esce il libro di Don Milani “lettera a una professoressa” in cui si chiede alla scuola di smettere di insegnare cose difficili attraverso la voce di Gianni, un ragazzino figlio di contadini che chiede indignato alla professoressa di smettere di insegnare l’Iliade del Monti (Vincenzo Monti, 1754 – 1828. Poeta, scrittore, traduttore e dramamturgo, ricordato principalmente per la sua traduzione del poema omerico):
“Monti chi è? Uno che ha qualcosa da dirci? Uno che parla la lingua che occorre a noi?” chiede Gianni alla Professoressa e le chiede anche di smettere con l’Eneide e la geometria perché “sono cose per ricchi, inventate dai ricchi per umiliare i poveri”. Certo, Don Milani voleva conservare dignità di un sapere pratico, i valori del mondo contadino e non si può non essere d’accordo ma per far ciò era davvero necessario negare il valore del sapere astratto? Il libro termina con l’auspicio che gli insegnanti smettano di fare cose difficili che umiliano i poveri e interroghino i poveri sulle cose che già sanno:
“A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano come avete fatto a scrivere questa lettera. A latino qualche parola antica che dice vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete delle sementi e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie”.
Concordo con Paola Mastrocola (altro autore del libro) nel dire che tutto questo deriva da una totale mancanza di fiducia nella capacità degli umili che volevano salvare, nonché un grosso errore: è proprio chi non ha nella propria cultura d’origine certe nozioni che la scuola deve aiutare dandogliele.
Personalmente mi verrebbe da porre una domanda a Don Milani: come mai nell’ambito della morale la Chiesa che lui rappresenta ci esorta a guardare in alto, al Cielo, mentre per quanto riguarda la vita pratica ci consiglia di guardare a terra, alle sementi? Contrasto non da poco: imperscrutabile il Cielo con i suoi misteri, ancor più se non “ho le basi” per capire ciò che mi viene spiegato su di esso; a meno che non si voglia parlare semplicemente di impartizione più che insegnamento, nel qual caso abbassare l’asticella è un ottimo metodo.
Paola Mastrocola alla fine di questo libro, scrive una lettera un genitore esortandolo a pretendere dalla scuola che dia ai loro figli non il diritto al successo formativo ma la garanzia di poterlo ottenere da soli.
Sono nata agli inizi degli anni’80, sono nata tra la penna e il mouse, ho visto il lento decadere della prima e la vorticosa ascesa del secondo, ma ringrazio di saper usare entrambi. Negli anni ho affrontato e subito diverse riforme e mi sono creata una personalissima idea su come dovrebbe essere la scuola:
- Per tutti: come sopra detto.
- Omogenea: i programmi vanno strutturati tenendo conto tutta la vita scolastica; non ho mai capito il senso di dover ripartire ogni ciclo scolastico dall’amigdala (utensile utilizzato dagli uomini preistorici, 450000 – 100000 anni fa) per poi non arrivare mai oltre la presa della Bastiglia se non con nomi a caso tipo “Napoleone” “Arciduca Francesco-Giuseppe…Sarajevo”…. Come rivedere sempre lo stesso film dall’inizio senza mai vederne la fine solo che qui la fine non c’è, il tempo scorre e sempre lì ci fermiamo. Ma partire dall’inizio alle elementari, dove tra l’altro si è più attratti verso uomini primitivi e civiltà antiche, passare alle medie con storia antica, al biennio con la storia moderna e al triennio con la contemporanea? Magari così al ‘900 ci arriviamo. La scuola dell’obbligo non arriva a 18 anni? Bene, appunti per prossima riforma: fissare l’obbligo scolastico fino ai 18 anni.
- Il senso: tutti abbiamo pensato “ma perché devo studiare latino, fare la parafrasi, la geometria analitica, al filosofia?” risposta sibillina “perché ti serve per tutto” ma tutto COSA? No, va spiegato che sono esercizi di logica e la logica serve per tutto. Si potrebbe utilizzare una terapia shock (scopro con piacere essere la stessa che ha pensato Paola Mastrocola): primo anno di medie, il/la Prof. chiede alla classe se ha voglia di conoscere le vicissitudini di eroi di guerra di un tempo lontano, la classe, si spera, dice di sì e l’insegnante inizia a leggere l’Iliade del Monti e chiede “avete capito?” “No…” “Vorreste?” “Sì!” (mi auguro che i ragazzi di quell’età siano ancora curiosi), al che l’insegnante si finge pensieroso, combattuto, e con enfasi dice “eh…per farlo però bisogna conoscere il codice misterioso e decifrare l’antico messaggio…bisogna saper tradurre, cioè saper fare la parafrasi…eh sì…bisogna saper fare l’analisi logica e del periodo… poi capirete questo e qualsiasi altro testo vogliate”. Anche in maniera giocosa magari! Con i primi “rudimenti di parafrasi” esercitarsi collettivamente in classe per vedere che strafalcioni vengono fuori, riderci su e vedersi migliorare giorno per giorno. Un po’ più complesso e divertente ma meno nebuloso di “ti serve per tutto”.
- La Disciplinare: si, ci vorrebbe una disciplinare per la scuola. Una commissione che ogni fine ciclo verifica competenze e attitudini degli insegnanti. Parliamoci chiaro, fare l’insegnante non è un lavoro, è una vocazione, come fare il medico o il militare; come loro quindi si devono aggiornare e non devono essere fuori di testa oltre che, come tutti, non devono essere lavativi solo perché non c’è controllo.
Certo da giovani non si ha molto la spinta allo studio (io di certo non l’avevo) ma curiosa e desiderosa di capire lo ero e lo sono ancora per questo a me invece piacerebbe scrivere una lettera agli studenti in cui li esorto e non prendere la scuola o lo studio non in maniera didascalica e utilitaristica, di non studiare solo alcune cose perché servono solo quelle o per il voto fine a sé stesso, di non solo sapere insomma, ma di capire perché la scuola prima o poi finisce e fuori da lì conta quanto ti sai barcamenare e quanto sai muoverti in diversi ambiti; per farlo ci vuole P, preparazione. Per dirlo alla maniera Nerd: andare a scuola è come costruire il proprio personaggio in un gioco di ruolo: bisogna costruirselo bene no? Altrimenti si perde e non si finiscono le missioni; ecco andare a scuola è questo, acquisire tutte le capacità per finire la missione, qualunque tu abbia deciso essere la tua.
E…riguardo alla mia missione…
“Io shperiamo che me la cavo” 🙂
(tratto dal finale del film “Io speriamo che me la cavo“).